Robert Kennedy fu ucciso il 6 giugno del 1968 durante la sua campagna elettorale che lo avrebbe molto probabilmente portato a diventare Presidente degli Stati Uniti.
Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.
Partendo dal presupposto che io la penso esattamente come la buonanima di Bob, con cui condivido molti pensieri democratici e un certo amore giovanile per le camicie botton down, provo a soffermarmi sul dibattito relativo alla reale utilità (o inutilità) del PIL, ritornato in gran voga negli ultimi tempi (il dibattito, non il PIL, s’intende).
Il Prodotto interno lordo riunisce in un’unica voce tante informazioni, compattando tutto in un solo grande numero facile da leggere. Così ci aiuta a misurare la crescita di uno Stato e anche quell’aumento (o quella diminuzione) della quantità di beni e servizi pro capite che ci può dare un’idea della qualità della vita
In tutti i discorsi macroeconomici il Prodotto interno lordo è protagonista assoluto. È l’indice di riferimento quando si parla della ricchezza di uno Stato, della sua capacità produttiva e della sua economia in senso ampio. In alcuni casi lo si trova declinato nella definizione del Pil pro capite, che è una misura del reddito medio dei cittadini di un Paese, o di un’area più ampia, come l’Unione europea ad esempio.
Il Pil come indicatore di ricchezza esiste da oltre 200 anni. Un concetto simile a quello che usiamo ancora oggi si ritrova infatti nell’opera di Adam Smith La ricchezza delle nazioni, la cui prima edizione è del 1776, e che ricordo perfettamente essendo stato tema del mio primo esame Universitario in Economia Politica.
Da anni, però, il Prodotto interno lordo viene criticato, con l’accusa di non essere un indicatore credibile. O quanto meno di fornire troppe poche informazioni se non affiancato da altri dati.
In un’intervista del 2019, l’editorialista economico del Financial Times David Pilling diceva che il Pil è un’illusione, perché misura tutto ciò che viene prodotto: cose buone e cose cattive, non fa alcuna differenza, riprendendo e modernizzando i concetti espressi da Kennedy nel 1968.
Il Pil misura efficacemente la quantità ma malissimo la qualità. È utilissimo per calcolare la produzione di materiale, ma è pessimo per misurare i servizi che ora rappresentano oltre il 70 per cento della produzione economica dei Paesi più avanzati. La verità è che dovremmo trattare i Paesi come un’azienda e invece ci facciamo fregare da un +1% o -1%. Se vi chiedessero di investire diecimila euro in una società che l’anno scorso ha realizzato dieci milioni di dollari non vi fermereste certo al fatturato. Perché vi servirebbero più informazioni per fidarvi. Qualsiasi investitore chiederebbe quanti lavoratori ha quell’azienda, quanto sono vecchi i macchinari, quanto è competente e aggiornata la forza lavoro».
Anche lui però aveva dovuto cedere all’evidenza della genialità del Pil, che sta proprio nella sua funzionalità: compatta tutto in un unico grande numero, un indicatore facile da capire e da seguire nei suoi spostamenti, per quanto incompleto o approssimativo.
Qualche settimana fa l’economista Max Roser, ricercatore alla Oxford University e fondatore del portale Our World in Data, aveva fatto su Twitter un’operazione di demistificazione delle tipiche critiche al Pil e al Pil pro capite. Per qualche ragione i giornalisti copiano l’uno dall’altro questa pigra critica del Pil – Esattamente come sto facendo io in questa pratica di copia e incolla per mettere insieme questo articolo, lo ammetto –
Sì, vogliamo sapere molte cose diverse, ma non ha senso criticare una metrica per non essere tutte le altre metriche. Anche il dato sulla mortalità infantile non ci parla del degrado ambientale. Ma lo accettiamo. Se vuoi conoscere il degrado ambientale, dovrai guardare le misure del degrado ambientale».
L’ultima frase, ironica, sta proprio a indicare l’impossibilità di rappresentare in un unico indice tutte le informazioni possibili riguardo all’economia – termine estremamente vasto – di uno Stato (o di un altro soggetto).
La definizione più gettonata nelle pubblicazioni scientifiche dice che la crescita economica è un aumento della quantità di beni e servizi prodotti, pro capite, in un periodo di tempo. È chiaro però che i beni e i servizi debbano essere quelli che in un certo senso determinano la qualità della vita, quindi quelli essenziali. Ma non solo.
Buona salute, un luogo in cui vivere, accesso all’istruzione, all’alimentazione, alle relazioni sociali, al rispetto, alla pace, ai diritti umani, a un ambiente sano, alla felicità. Questi sono solo alcuni dei tanti aspetti a cui teniamo nella nostra vita. Al centro di molti di questi aspetti ci sono i bisogni per i quali richiediamo beni e servizi particolari: i servizi sanitari, la casa, gli insegnanti. La povertà, la prosperità e la crescita possono essere misurati attraverso il Pil pro capite, che indicherà l’accesso delle persone a quei beni e servizi che consideriamo importanti
Generalmente la crescita economica viene misurata con un aumento – o una diminuzione, nel caso di una recessione – del reddito o del Pil pro capite (corretto con l’inflazione). È chiaro però che per determinare se la quantità e la qualità di tutti i beni e servizi economici prodotti da una società sono aumentati o diminuiti nel tempo c’è bisogno di una quantità enorme di informazioni. E trovare un indicatore significa voler esprimere tutte quelle informazioni in un valore più o meno composito.
Un modo possibile per misurare la crescita è fare un elenco di alcuni prodotti specifici e vedere quale quota della popolazione ha accesso a essi. Il vantaggio di misurare la crescita in questo modo è che è concreta. Chiarisce esattamente cosa sta crescendo ed è chiaro a quali particolari beni e servizi le persone hanno accesso.
Il rovescio della medaglia di questo approccio è che racchiude solo una piccola parte della crescita economica: ci sono molti altri beni e servizi che le persone desiderano – e di cui hanno bisogno – oltre all’acqua, all’elettricità, ai servizi igienico-sanitari e alla tecnologia per cucinare.
Da qui l’importanza di costruire un indice che sia in grado di racchiudere il senso della crescita economica, della disponibilità attuale e futura di beni e servizi, per comprendere la direzione in cui sta andando il mondo. D’altronde la storia della crescita economica è la storia di come le società trovano il modo per produrre più beni e servizi: tutti i beni e servizi di cui le persone hanno bisogno.