Un bel giorno del mese di marzo, un fulmine a ciel sereno partiva da FinecoBank che comunicava pubblicamente ai propri clienti i cambiamenti che sarebbero seguiti da li a qualche mese: la chiusura dei conti correnti con giacenza superiore ai 100 mila euro, per i possessori di conti senza altre tipologie di soluzioni di finanziamento o di investimento.
La decisione di Fineco è arrivata in prima istanza ai correntisti come «Proposta di modifica unilaterale di contratto ai sensi dell’art. 118 del decreto legislativo n. 385/93», ma sarà seguita da una comunicazione per raccomandata.
Più o meno a ruota, ma con modalità di comunicazione differenti, si sono accodati gli altri istituti bancari nelle settimane successive; Unicredit, per esempio, si è limitata ad applicare un incremento dei costi del canone mensile fino ad una soglia del 70%.
Io lavoro nel settore assicurativo e tengo a specificare che, pur essendo in un certo senso concorrenza, non scrivo questo articolo con intenti populisti, ma solo con l’obiettivo di provare a capire le motivazioni che hanno portato determinati colossi bancari ad assumere decisioni non propriamente popolari e, in un certo senso, anche giuste.
Scenario attuale
- Negli ultimi mesi il panorama economico ha subito cambiamenti profondi, basti pensare alla crescita della liquidità sui conti correnti: secondi i dati forniti dall’ABI, infatti, a marzo i depositi avevano raggiunto la cifra record di 1.749 miliardi di euro.
- La paura e le incertezze per il futuro sono state accentuate dalla pandemia, accelerando di fatto una tendenza già evidente in passato ed insita nella natura risparmiatrice dell’italiano medio.
In questo scenario economico la figura del consulente dovrebbe emergere, non finalizzandosi e limitandosi esclusivamente alla mera vendita del prodotto, ma elevando l’asticella della consulenza e del servizio, evidenziando, rimarcando e conquistandosi un ruolo che oserei definire sociale.
Questo nei mesi scorsi non è accaduto e non sta accadendo neanche oggi, soprattutto nel settore bancario tradizionale che raramente si avvale di professionisti della consulenza capaci di identificare le necessità di ogni singolo cliente e cercare di trovare soluzioni condivise.
- La troppa liquidità sui conti non è solo un problema per il cliente che vede erodere i suoi risparmi da costi di gestione e bolli ministeriali, ma lo è anche per le stesse banche, perché rappresenta, ormai, solo un costo; Le banche devono tenere fermo questo enorme flusso di liquidità senza percepire nessun margine di interesse e, contemporaneamente, devono sopportare i costi dei dipendenti che lavorano in filiale ed effettuano le operazione allo sportello.
- Non è sempre stato così, fino a qualche anno fa le banche depositavano la liquidità presso la Banca centrale europea e questa gli riconosceva un tasso positivo, quindi con quel margine di guadagno potevano gestire gratuitamente una serie di servizi che oggi non possono più offrire perché i tassi sui depositi sono negativi.
Cosa fare?
Davanti a questi inevitabili cambiamenti, deve cambiare anche l’approccio del risparmiatore al concetto stesso di risparmio. Capita ancora oggi che il cliente si rivolga a noi con frasi del tipo: se ti do 50.000 euro che tasso di interesse mi dai? Quando invece bisognerebbe quantificare il proprio orizzonte temporale finalizzato ad un obiettivo da raggiungere. Oppure quando dopo pochi mesi vengono a riscattare e tu gli fai notare che il capitale riscattabile è inferiore a quello investito e li vedi alterarsi e rivolgerti la classica domanda retorica: ma io non sono padrone dei miei soldi? Si, certo che lo siete, ma dovete iniziare a rendervi conto che la gestione della liquidità ha dei costi importanti e che gli operatori del settore non lavorano gratis e che quindi insieme a loro vanno stabiliti gli adeguati orizzonti temporali.
Il consiglio è banale ma, come al solito, sono le risposte semplici quelle più efficaci: io ai miei clienti suggerisco di lasciare sul conto corrente solo quello che serve per le spese quotidiane, per le utenze e il fabbisogno familiare e lo quantifico in circa tre/quattro stipendi netti.
Tutto il resto va utilizzato per il raggiungimento dei diversi progetti di vita a breve, medio e lungo termine, con una quota destinata alla protezione della salute del nucleo familiare e del patrimonio stesso. Ha senso (per esempio) risparmiare per una vita, realizzando un buon patrimonio per poi bruciarlo in poche settimane a causa di un eventuale problema di salute che richieda cure e farmaci costosi? Non sarebbe più logico destinare una piccolissima parte di quel patrimonio al trasferimento del rischio che, in caso di eventi legati alla salute, ci metta a disposizione capitali importanti senza intaccare i nostri risparmi?
Nota a margine
Ho letto, addirittura, di persone che in questo periodo scelgono di affidarsi ad app e programmi automatici per gestire gli investimenti. Sorvolo sui commenti e pongo alcuni interrogativi:
- strumenti di questo genere sono in grado di ascoltare il cliente, chiedergli qual è il suo profilo di rischio e scegliere per suo conto?
- Un’app conosce i vostri figli? Può ipotizzare quale potrebbe essere il loro futuro percorso di studi?
- Conosce il vostro attuale reddito e quello che potrebbe essere tra 20 anni?
Su questi punti si definisce la differenza tra un sistema automatizzato e un consulente. Un professionista capace fa delle domande che vanno al di là delle opportunità di mercato nel breve termine. Le app scelgono, utilizzando vari algoritmi, quello che potrebbe essere un portafoglio corretto in un orizzonte di 12-24 mesi; ma per vedere se queste soluzioni possano andare bene per un determinato cliente serve un consulente che faccia le domande giuste e che disegni un abito su misura per la persona che ha di fronte.